Vincenzo Setaro: Eutanasia?posted: 7/2/2022 at 16:34:19
Il 7 febbraio 1990 ho perso un carissimo amico. Vincenzo avrebbe compiuto settant'anni dopo pochi giorni, l’11. Nonostante la differenza d'età fra noi era nata una solida amicizia. Era amico di mio padre. Me lo presentò che non avevo vent'anni. Capitava qualche sera che lo incontravo per il Corso e ce lo facevamo in lungo e in largo fino a mezzanotte. Parlavamo di tutto e mi arricchivo a livello umano e di cultura. Abbiamo anche parlato dell'immortalità dell'anima, di donne e di politica. Già affiorava nelle sue parole un amore lontano e mai dimenticato. Quando divenni magistrato pretese di darmi del lei, ma il sentimento amicale divenne ancora più stretto. Quando mi trasferii a Savona, talvolta alzavo il telefono e sentivo la sua voce: «Signor giudice, avevo nostalgia di sentirla, mi perdoni se l'ho chiamata». Una fredda sera natalizia, lo andai a trovare. Ormai non usciva quasi più. Il male avanzava e lui non lo sapeva. Con poche pennellate mi dipinse la sua vita, legata ancora agli anni universitari, a Siena, e alla ragazza di cui era innamorato, Luciana. Ancora le telefonava, ma non aveva avuto il coraggio di sposarla. Lei a Grosseto. Lui a Torre Annunziata. Ogni tanto si incontravano. Poi seppe. Fece testamento. La signora Luciana venne a Torre per assisterlo. In una delle mie frequenti visite gli donai questo pensiero, trovato affisso alla porta secondaria di una chiesa di Gubbio, e subito fotografato. «Una notte ho sognato che camminavo sulla spiaggia con il Signore. Scene della mia vita balenavano attraverso il cielo. In ognuna notavo impronte di piedi, a volte di quattro, a volte di due soli. Vedevo che nei periodi bui della mia vita le impronte erano soltanto due, perciò ho detto: "Signore, avevi promesso che avresti sempre camminato al mio fianco: Perché, quando più avevo bisogno di te, non mi eri accanto?". "Quando hai visto solo due impronte" - mi ha risposto - "ti portavo sulle braccia"». Glielo diedi come segno del mio affetto e del mio incoraggiamento. Lo lesse, mi prese la mano e piangendo mi disse: «Ti voglio bene». Poi si riprese e aggiunse: «Signor giudice sto morendo da "signore" grazie alla mia Luciana».
Sull'eutanasia ho riflettuto tante volte ed anch'io ci ho pensato nel vedere le sofferenze dell'amico che ha seguito con lucidità impressionante il suo cammino verso la morte. Quando si parla di eutanasia, vengono subito alla mente le complesse implicazioni che involge: dall'aspetto umano, con i familiari e gli amici più cari, combattuti, nel loro sentimento di affetto verso la persona malata, fra il desiderio di vederla ristabilita e la pietà per le sue sofferenze; a quello morale, con la perenne lotta fra la vita e la morte proiettata nella valutazione etica della accettazione o della condanna della buona morte; a quello medico, con i problemi di coscienza deI professionista che per lavoro tutela la salute e la vita dei pazienti, eppure si rende conto della inutilità di certe sofferenze; infine all'aspetto giuridico, con i suoi rigidi schemi applicativi ed interpretativi che lasciano poco spazio agli operatori del diritto. È in quest'ultima ottica che mi torna più facile parlare di eutanasia anche se è bene chiarire che per il diritto siamo di fronte ad uno pseudoproblema, quanto meno per la legislazione oggi in vigore, che punisce con pene severe il responsabile dell'eutanasia, sia come autore di un omicidio volontario, che di un omicidio del consenziente, nell'ipotesi in cui sussista il consenso della vittima. Aumenta costantemente il movimento di opinione a favore dell'eutanasia, però la gran parte degli Stati del mondo la puniscono come reato. Le stesse religioni, da quella protestante a quella ebraica, islamica, buddista, sono contrarie all'eutanasia, con qualche apertura nei confronti di quella passiva, come accade per i cattolici, che ammettono la possibilità di sospendere terapie straordinarie nel malato morente. La sempre più profonda sensibilizzazione sul problema è testimoniata dalle numerose proposte di legge, approvate in poche, presentate dall'inizio del secolo ai nostri giorni in vari Stati. A me interessa in particolare un aspetto: accanto al diritto di vivere esiste anche un diritto di morire? È fuori discussione che il diritto italiano tuteli la vita umana non solo nell'interesse dell'individuo ma anche nell'interesse della collettività. Esiste un diritto di vivere, che diventa anche dovere verso se stessi, la famiglia, verso gli altri, ma non può parlarsi di diritto di morire, tanto è vero che è vietato il suicidio ed è punito chi aiuta o istiga altri al suicidio; anche se va evidenziato che il suicidio, il suo tentativo, le lesioni su se stessi, non trovano alcuna sanzione nell'ordinamento giuridico, ben diversamente da tempi in cui il suicida veniva punito se sopravviveva ed in caso di morte venivano colpiti il suo cadavere e i suoi beni. In altri termini, non si può decidere di morire, ma, se lo si fa e si attua il proposito, non si è puniti. Davvero non si può parlare di diritto di morire; siamo solo in presenza di un divieto senza sanzione. Certo coloro che si accontentano più facilmente potranno dire che dei passi avanti sono stati fatti rispetto a tempi in cui si praticava e si sosteneva l'eutanasia eugenica o quella economica; con la prima si eliminavano i deformi e gli handicappati per migliorare la razza; con la seconda ci si liberava di vecchi e malati, che costituivano solo un peso per la collettività e non davano nulla in cambio. Ma non si può ritenere appagante l'attuale situazione normativa. lo considero valida la differenziazione fra eutanasia attiva e passiva; quella attiva si ha nel caso di somministrazione al paziente di farmaci o veleni per provocarne la morte al limite anche con il ricorso ad un'azione cruenta; quella passiva si verifica quando viene sospesa la terapia straordinaria al malato, che è tenuto in vita quasi artificialmente. Per me nulla ha a che vedere con l'eutanasia la somministrazione di farmaci diretti a lenire il dolore e le sofferenze, anche se questi possano comportare come effetto collaterale quello di affrettare la morte del malato, a prescindere dal fatto che oggi la scienza medica non sembra in grado di individuare con certezza tali effetti. In tali casi il fine è quello di limitare le sofferenze, non di provocare la morte. Voglio comunque sottolineare un dato fondamentale: l'oggetto principale dell'attenzione dei propugnatori della eutanasia non è tanto la morte quanto la sofferenza. Il fine della decriminalizzazione del fenomeno non è quello di provocare la morte del malato, ma quello di evitargli sofferenze terribili e senza prospettive di guarigione. A questo punto ritorna la domanda iniziale: esiste il diritto di morire? Dicevamo che non si può disporre della propria vita e del proprio corpo, che il suicidio è vietato ma non punito; ma è anche vero che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» (articolo 32 della Costituzione). Quindi il malato può rifiutare la distanasia, l'ostinazione terapeutica, può scegliere di morire per non soffrire più, piuttosto che affrontare atroci sofferenze per strappare alla vita ancora un'ora, un giorno, un mese. Forse possiamo concludere che il diritto di morire c'è, nel senso che non si può negare all'infermo di decidere di troncare una vita che non è vita, perché è solo inutile sofferenza. Nelle nostre coscienze abbiamo compreso questa terribile verità. Rimane solo da attendere che la realtà giuridica si adegui alla realtà sociale.
michi del gaudio


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