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Notizie del 12/2014
Vangelo e Costituzione 7ª Puntataposted: 17/12/2014 at 11:32:51
Tullio Pironti Editore, 2014

Le tentazioni

Gesù su questo era irremovibile. Che ragione c’era per fumare e bere liquori? Quando Francesco portò il fumo per la prima volta la compagnia aderì compatta: voleva provare la nuova esperienza. Con la bottiglia di vodka fu la stessa cosa. Gesù non provò neppure a dissuadere gli amici, anche quando Emilio vomitò ed Espedito si accasciò mezzo addormentato. La messa ad hascisc e alcolici si ripeteva ogni sabato sera con una ritualità spontanea ma articolata nei dettagli.
All’inizio Gesù era tollerato, poi cominciarono le insistenze per coinvolgerlo nel banchetto. Allora si confidò con i genitori:
– Hanno un’unica motivazione, darsi importanza, poter raccontare di averlo fatto, vantarsi di essere coraggiosi.
Ma Gesù non aveva bisogno di pavoneggiarsi, aveva una personalità solida, osservava i suoi doveri e pretendeva il rispetto dei suoi diritti. Se necessario non disdegnava lo scontro verbale e anche fisico. Bere e fumare gli sembravano un atto di debolezza, verso se stessi e
verso gli altri. Una sera pose l’ultimatum:
– Io non vi giudico se lo fate, ma voi non dovete pretendere che lo faccia anch’io, altrimenti la chiudiamo qui!
Gli amici rincularono, qualcuno continuò, qualcuno smise: la comitiva si salvò.

Anzi una volta lo… salvò.
Il colore della sua pelle non era simpatico a tutti e, soprattutto quando fuori casa stracciava le squadre avversarie con i suoi dribbling, veroniche e trivele, suscitava parolacce intolleranti e discriminatorie. Gli stessi, che impazzivano per il top player di colore del Chelsea e del Barcellona, non sopportavano che quello sporco negretto potesse vincere.
A Fuorigrotta ne avevano segnati quattro e preso nessuno: tripletta di Gesù Esposito. Contenti e scherzosi s’incamminarono verso la metropolitana, quando la squadraccia sconfitta accerchiò il nero col pantaloncino bianco e lo isolò dal gruppo. Ma, prima che partisse il linciaggio razzista, la comitiva confermò la vittoria anche a botte: la punta sfilò l’agnello sacrificale e lo infilò nel treno, la coda intralciò gli avversari e si aggrappò all’ultima carrozza. I denti vibrarono fino alle Vele e le facce sbollirono solo nel terreno abbandonato, complice dei loro giochi. Si giurarono amicizia eterna fra le erbacce che non rinnegarono mai.
Niki tirò fuori dal nascondiglio, dietro un vecchio pollaio, la bottiglia di whisky, unica sopravvissuta dopo l’ultima discussione:
– Brindiamo a Cotica Abbruciata!
– Uéh , frate’, ma la bottiglia ti si è azzeccata in mano! - Lo fermò preoccupato Genny.
Niki si bloccò nell’ansia che lo annichiliva quando vedeva la cacca di gallina. Era la merdaccia di quelle maledette che gli appiccicava la mano alla bottiglia. La mollò di colpo e vide il superalcolico rimbalzare fra i cocci di vetro in un misto di rimpianto e contentezza. Ma la mano era… tremendamente… pulita… Di sterco bipede neanche l’ombra! Si scagliò allora come un ghepardo imbestialito addosso a Genny:
– Bastardo, sei un bastardo!
– Fermo, fermo! – S’intromise Francesco.
– Lasciami, Pitbul, hai fatto la faccia come il tuo cane! – Niki si divincolò.
– E tu hai un panzone peggio di Ollio. – Lo riacciuffò Francesco.
– Basta, basta! Almeno sta’ volta si è dimenticato di chiamarmi gay. – Lo abbracciò Genny assieme a tutti gli altri.
Erano già tranquilli quando entrarono nel teatrino fatiscente.

Le sceneggiate napoletane tratteggiano sempre iss, ess, u malament, u scem e altri personaggi fissi o aggiunti secondo le esigenze della trama. Nella tipica espressione di arte popolare lo spettatore si identifica coi personaggi in maniera quasi maniacale, tanto che lui e lei, gli innamorati, vengono costantemente osannati, mentre il cattivo spesso si becca le percosse e lo scemo già si aspetta gli sfottò.
Nella realtà, soprattutto in quella vesuviana, troppo frequentemente è il cattivo a trionfare su chi opta per l’amore, troppo sensibile per imporre usura ed estorsioni. Quindi la platea può dare sfogo alla sua ribellione almeno a teatro.
L’unico ruolo che rimane uguale è quello dello scemo, dello sciancato, del disabile. Addirittura in passato il subnormale veniva chiamato u scign, perché simile ad una scimmia dai movimenti inconsulti.

A Scampia lo scemo era Anselmo, figlio di una coppia del nord, trasferitasi temporaneamente a Napoli e rimasta definitivamente al cimitero di Secondigliano. Il piccolo di appena sei anni scampò al massacro dei genitori, colpevoli di essersi opposti al pizzo. Vagò per anni fra bastonate, insulti e vessazioni di ogni tipo, che bloccarono il suo sviluppo mentale fino a decretarne lo stato di oligofrenico di grado severo. Nonostante qualche umano assistente sociale saltuariamente tentasse, Anselmo non si inserì mai, preferendo la solitudine dei suoi pensieri abnormi a ordini farmacologici e verbali senza cuore, che ovviamente non entravano nel suo.
A volte girava attorno alla comitiva e scappava appena subodorava qualche trappola. Solo Gesù lo trattava alla pari, accarezzandogli il barbone e i capelli lunghi come le gambe, che sbucavano inconsuete sotto il torso piccolo e stretto. Gli parlava e lo ascoltava.
Una zia una volta raccontò che Anselmo era fra studenti e operai fuori al basso di via Forcella quando nacque Gesù.

Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato… il diavolo… gli mostrò tutti i regni del mondo… e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se… mi adorerai»… Gesù gli rispose: «Vattene, Satana!». Allora il diavolo lo lasciò… (Matteo, 4:1 e 8:11).


Vangelo e costituzione posted: 11/12/2014 at 13:23:12
Un libro per tutti e per nessuno
di Felicio Izzo

L’ultima opera del “giudice che non giudica” richiama nell’impianto strutturale, i romanzi filosofici della seconda metà del ‘700. L’impressione si rafforza a lettura conclusa, che pure porta – ed è un paradosso - alla convinzione che, in fondo, a ben vedere, non si tratta di un romanzo e che di filosofia non ci sono tracce, se non quelle fisiologiche riscontrabili in ogni produzione umana.
Ma guarda che lenza, il nostro Michi, ho pensato, ritenendolo responsabile del ghiribizzo che m’era venuto, ma è evidente – mi sono detto - è la sua firma vivente, di antinomia interna irrisolvibile, di giudice che non coniuga nemmeno il verbo che dà origine al sostantivo, di credente scettico eppure fervente. La soluzione, la sintesi di due elementi del resto nemmeno contrapposti, Vangelo e Costituzione, appunto, le riserva alla sua opera, orientandole nel senso dell’Amore, questo sì declinato nelle varie accezioni, ma univocamente proclamato unica garanzia di Vita.
La verità è che il libro è del tutto singolare e, quel che più conta, l’originalità la trae dall’ovvietà, dalla naturalezza dell’operazione letteraria che compie: mettere a confronto due testi, apparentemente distanti, per individuarne il cospicuo “terzo incluso”, per citare Bobbio. Che poi le due opere costituiscano parte sostanziale dell’apparato formativo dell’autore è solo un dettaglio del tutto ininfluente. Il libro, come qualsiasi altro libro, una volta messo al mondo, ha una sua vita del tutto autonoma capace di regolare quella dell’autore, di orientarla con la forza della parola, l’unità di misura dell’esistenza stessa, di farsi profetico racconto di quanto ancora è nascosto nel tempo a venire. E questo in particolare, intriso come appare in ogni momento della narrazione di un onirico visionarismo chassidico. Un richiamo “facile” del resto, annunciato sin dalla copertina con l’opera di Chagall, l’ebreo di Vibetsk capace di universalizzare le storie di Baal Shem Tov, di tradurle in un comune immaginario pittorico, nostalgico e fantastico.
Ma se una coordinata formale la offre il chassidismo, l’altra, non c’è dubbio, va individuata nel diffuso lirismo. Ancora una scelta formale solo apparentemente incompatibile con la ricerca filosofica e che invece consente di azzardare un altro riferimento nel nicciano “Zarathustra”, non a caso il profeta che nasce ridendo.
Eppure un racconto, così inverosimile nel plot, nell’intrigo, quale “Vangelo e Costituzione”, utilizza un dispositivo diegetico che si manifesta con tale naturalezza di proposizione, da apparire, alla fine, di un realismo quasi cronachistico. Così registriamo un pastiche linguistico – fondamentalmente lirico - che alterna lampi di vernacolo con cadute nello scatologico ed incursioni nei clichè nominalistici da fiction (la compagna/moglie di Gesù Esposito diventa Maddy, con la y ; un po’ come la famosa Deborah con l’acca).
Ma si diceva della trama, esile eppure solidissima nella sua surreale coerenza, e tanto da potersi ridurre ad un titolo: “Il ritorno di Gesù”. O, più articolatamente, la riproposizione del suo insegnamento che l’autore immagina avvenga attraverso due libri, sorprendentemente prossimi. Il Vangelo – prioritariamente nella versione di Matteo, la stessa di Pasolini – e la nostra Costituzione, della quale Benigni ha detto che quando sarà messa in pratica diventeremo il popolo più felice della terra, risalendo – quando sarà – dal nostro 45° posto che attualmente occupiamo, in una classifica O.N.U.
Nel suo cammino tra Napoli e il mondo, passando da New York, Gesù, incontra una serie di moderni apostoli, personaggi storici, alcuni viventi, tutti identificabili. Michi ci regala il suggestivo gioco, che dovette interessare i lettori della Commedia coevi di Dante, del riconoscimento dei vari personaggi, offrendoci, la possibilità di una verifica della giustezza delle intuizioni, in una delle ultime pagine con l’estensione di un puntuale elenco.
Nella sua itinerante predicazione vengono affrontate diverse problematiche, così puntuali da scandire i capitoli, di coscienza o di carattere etico, ma prevalentemente sociali. E tutte affrontate in maniera concreta, diretta senza timori di proporre posizioni ed argomentazioni molto poco politically correct, attingendo motivazioni proprio da una lettura attenta, letterale del Vangelo. Un procedimento euristico che diremmo mutuato dall’Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium” di papa Bergoglio, se non sapessimo – è lo stesso autore a rivelarlo - che il libro era concluso un paio di mesi prima dell’elezione del papa argentino. Eppure non ci sono dubbi che il vero, per quanto inconsapevole, ispiratore dell’opera è proprio Francesco al quale è diretta in apertura di volume, una intensa lettera, di quelle che ispirano le coscienze.
Ancora un’assoluta singolarità, un libro che profeticamente anticipa figure, strade, posizioni, analisi ed insegnamenti quali quelli presenti nella citata esortazione, autentico manuale per comprendere il Vangelo ed adeguarlo al mondo complicato di oggi. In questa concordanza trova una sua più vera densità il messaggio che dall’opera promana: la salvezza sta nel raggiungimento di un sereno equilibrio attraverso la condizione dell’amore attivo, stato che proprio nel Vangelo e nella Costituzione trova un solido fondamento per la sua dottrina e la prassi di non violenza attiva, di resistenza attiva contro il male. Quella condizione che Gandhi, uno dei più vitali apostoli moderni, con una parola definì Satyagraha, letteralmente “insistenza per la verità”, forza della verità, ad intendere la non violenza del forte, vale a dire di chi può usare la violenza, ma preferisce ricorrere alla forza dell’amore.

Vangelo e costituzione posted: 11/12/2014 at 13:20:54
Un libro per tutti e per nessuno
di Felicio Izzo

Nella cosmogonia degli amerindi Hopi, una tribù al confine col Messico, dove non sono del tutto assenti le influenze delle tradizioni delle mesas, c’è una divinità dal nome impronunciabile, ma dalla significativa traduzione che non anticipo.
Un racconto tramandato oralmente in una lingua misteriosa dalla semantica tonale, solo in parte imparentata con l’uto-azteco, la descrive come un essere bizzarro. Suo non esclusivo ghiribizzo era quello di fare scherzi agli uomini, come per metterli alla prova – e fin qui, nihil novum… - e sorridere, anzi sghignazzare delle loro debolezze. Persino l’ “Elì, Elì…” (presente nel racconto per una contaminazione addebitabile alla sorprendente discreta conduzione delle cicatrici della terra, dalla Rift Valley alla faglia di S.Andrea) era stata un’occasione di ilarità. Un dio puro e capriccioso come un bambino. Un dio-bambino.
Ma quando gli apparivano uniti, gli esseri umani, nella concordia dei sentimenti, pronti ad operare insieme, la divinità, si trasformava nell’umore. Come quando tiravano su, con l’intesa di uno sguardo, una tenda, o imparavano, intemerati, a lanciarsi da un cavallo in corsa. Allora si rabbuiava; arrangolata la voce si incupiva: più che un lamento era un ringhio rabbioso quello che accompagnava ogni suo pensiero. Un desiderio di distruzione si impadroniva del dio che in particolare fremeva rancoroso nel vederli, periodicamente, nelle notti d’equinozio, coprirsi gli occhi con le mani ad aspettare, tutti, con paziente fiducia, la luce dal cielo, al termine dell’oscurità.
Si intristiva - ma il verbo è limitativo – a scoprirli sereni, uniti, contenti. Vizzo di dolore si immalinconiva quando, con naturalezza, si mostravano per quello che erano: uomini tra gli uomini, come la “Semplice Anima” – ma la traduzione è solo parziale - , ente superiore agli stessi dei, aveva desiderato fossero e restassero sin dal loro sorgere sulla terra.
Era allora che li vedeva sicuri, tranquilli, leggeri e, se non perfetti, di certo più perfetti di un dio. Perciò diventava scuro in volto, pensieroso. Temeva che ognuno di loro avrebbe potuto spodestarlo e farsi sovrano degli dei e degli uomini. Poi, quando il sangue montava e arrivava al punto di odiarli, alla volontà di cancellarli, alla soglia del proposito di farlo, seppure con una tristezza trattenuta anche nelle lacrime…improvvisamente, di colpo, come una folgore gli attraversasse la mente, realizzava, con sollievo, che, in fondo, erano sue creature e doveva esserne fiero ed orgoglioso. Come conviene ad ogni padre.
Allora, esattamente nel momento in cui lo sguardo lasciava finalmente il posto al calore che aspetta dietro gli occhi, cominciava a ridere. Dapprima un segno intorno alle labbra, poi un sussulto del petto, infine un fragore inarrestabile, fino alle lacrime, incapace a trattenerle, il dio, finalmente libero. Lacrime copiose, calde del calore che aspetta dietro gli occhi, ma non di scherno o divertimento, ma di gioia, d’amore, del sereno conforto dell’intensità delle emozioni.
Per questo – ora posso rivelarlo – il suo nome significa “colui che piange ridendo” o – le due versioni sono solo apparentemente contraddittorie – “colui che ride piangendo”.
Poi…poi…, a conferma che neanche gli dei sono perfetti e nessuno si sottrae alle leggi del tempo, tanto meno a quella dell’eterna ricorrenza, come le stagioni, continuano a replicarsi, così, nel racconto, il dio, riprende a fare scherzi, a sghignazzare, ad odiare ed infine a ridere. Con sollievo.

Penso che sabato 29 novembre al liceo De Chirico, in quella minuscola agorà dell’universo, con un omino coi colori della senilità e gli occhi da bambino, fra uomini con la testa della leggerezza del possibile e giovani mai così vicini ai loro pensieri, quel dio, dal nome impronunciabile, si sarà arrabbiato tantissimo e pianto, sino allo sfinimento. E, come mai prima, con tanta gioia.


Vangelo e Costituzione 6ª Puntataposted: 9/12/2014 at 12:18:46
Tullio Pironti Editore, 2014

La sinagoga

Col prete Gesù non andava troppo d’accordo, o meglio dialogava con tutti, aiutava tutti, ma con le autorità… Don Salvatore non era cattivo, ma era un prete, un potere, la sua parola era incontestabile, come quella del professore, del poliziotto, del capopalazzo, del camorrista… L’adolescente Gesù non voleva ubbidire acriticamente, ma essere consapevole, condividere…
Quello che proprio non gli entrava in testa era il diavolo. Una volta interruppe addirittura l’omelia di don Salvatore durante la messa:
– Sto diavolo vi serve solo per farci paura! Dio è amore, non è timore! Qua se ne parla come se fosse un energumeno che ci aspetta per riempirci di mazzate! Io non lo concepisco un padre che mi fa nascere e poi mi fa gonfiare da un suo ex garzone infedele!
– Fuori! Fuori! Offendi il Signore! E poi con questo linguaggio da bar. Fuori!
– Perché quelli che vanno al bar non sono cristiani? E poi io posso anche parlare raffinato. Non è il linguaggio che cambia la sostanza. Il diavolo non è una persona, è una cosa… una situazione… spirituale! È il male che è dentro ognuno di noi, la parte cattiva, la parte egoista, falsa, violenta, camorrista. Non è invincibile, ma c’è. Pare che dorme, ma sta in agguato. E quando più siamo sicuri… ci sale per le gambe… fino al cervello. A volte ce lo strozza come un cravattaro, ma il Padre nostro ci ha lasciato la capacità di resistere, di vincere le tentazioni. Dipende da noi. Il diavolo come lo dipingete voi preti sta solo nei quadri. Che ve ne fate di fedeli che hanno paura del diavolo, ma fanno peccati a non finire. Non sarebbe meglio cercare di convincere gente come me, che sente qualcosa dentro e vuole capire.
- Fuori! - Rispose senza rispondere il gran sacerdote.

Fuori c’era il campetto, arido come la mente di don Salvatore: neanche le porte, la rete, solo due bidoni ad imitare i pali. Dal terreno battuto emergeva qua e là uno scoglio che non voleva affogare. Come Anita, desiderosa di giocare a pallone, ma rifiutata dai maschi. Secondo lei, rompere le corna a qualche bulletto e sbatterlo sulle pietre per insanguinarlo, era il modo migliore per farsi rispettare. Ecco perché si allenava da difensore: i più aggressivi si piccavano di essere goleador e lei si vendicava giocando, ma a testate e calci negli stinchi.
Gesù si era accovacciato sul lato lontano del terreno di gioco: era stato cacciato dalla chiesa, ma voleva tornarci. Già la scuola aveva scartato parecchi suoi amici, che anche la chiesa escludesse gli sembrava una bestemmia. Una mano si posò sulla sua spalla:
– Non vorrai mica arrenderti? – Era il giovane viceparroco colombiano.
Gesù lo squadrò diffidente quasi fosse il diavolo appena rinnegato.
– No, non sono il diavolo. Sono Juan. Sono il figlio del padre. Il padre del figlio. Quello che ascolta
insomma!
– E perché sei stato zitto, allora!
– Perché sono quello che ascolta.
– Cioè sei come Ponzio Pilato, fai finta di niente? Anche se Ponzio Pilato era molto più furbo e navigato di quello che appare.
– Ora ascolto, domani parlo, dopodomani agisco.
– Ma io non ho molto tempo.

Don Juan era piccolo e tozzo, un fiasco di vino buono, capelli neri, folti come le sue idee. Era a Scampia da un anno e ne aveva poco più di venti. A casa sua, in Sudamerica, si mangiava una volta al giorno, poco e male. La madre aveva convinto il missionario che il figlio aveva qualità e il figlio che avrebbe mangiato tre volte al giorno. Juan senza rendersene conto si era ritrovato con la tonaca addosso e tanta voglia di capire, come Gesù.
I loro dialoghi divennero frequenti, anche se Gesù a volte gli inviava un sms per disdire l’appuntamento. Una mattina il colombiano lo aspettò contrariato fuori alle Vele e gli comunicò:
– Tu non diventerai mai sacerdote.
– No, sei tu che sei malato! – Lo apostrofò Gesù. - Mio padre mi ha sempre augurato di essere felice. E io quando sto con Serena, la prendo per mano, sono felice. Perché mio padre dovrebbe punirmi? A te non viene mai voglia? Se dici no, sei un ipocrita.
– Sì che mi viene, ma ho sposato il Signore.
– Anche io credo in mio padre e voglio diffondere la sua parola, ma lui non ha mai detto che non posso amare una donna o che non devo avere figli.
– Non solo il Vecchio ma anche il Nuovo Testamento lo vietano.
– Testamento, testamento, ma parlate ancora di morti? Io voglio parlare di vivi, portare gioia, speranza, giustizia!
– Ma chi supponi di essere, il Messia?
– Eh, eh, lo capisci che sono dovuto tornare! Duemila anni fa cercai di essere chiaro, ma hanno annacquato i miei discorsi. E allora sono tornato, per una interpretazione autentica del mio pensiero.
– Tu sei pazzo!
– Anche duemila anni fa me lo dissero.

Il sole domenicale era un acquerello soffuso, quasi vezzeggiava il calcestruzzo senza fiori, lo dirozzava e lo invogliava alla riflessione, alla malinconia allegra dei ricordi, alla ricongiunzione delle voci, alla unicità dell’insegnamento.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente… non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare (Matteo, 23:13).
Non è il Dio dei morti, ma dei viventi! (22:32).


Vangelo e Costituzione 5ª Puntataposted: 2/12/2014 at 13:13:00
Tullio Pironti Editore, 2014

La schiavitù

Il nebbiun di vapore e veleni ammalava più dei nubifragi i fabbricati abbandonati, tana di giovani animali bianchi e neri, scappati dalla fame per ritrovarla. Ognuno custodiva la sua storia, ma non la raccontava, la stringeva al petto come il tesoro di un’isola remota.

Bogdan era nato buono! Era diventato… cattivo!
A dieci anni appena, era stato esiliato da genitori fecondi di marmocchi e spogli di cibo. Aveva zappato campi senza frutti e vegliato digiuno dentro una baracca. Deportato in Italia come alternativa alla disperazione, ne aveva conosciuto l’abisso. Almeno in Serbia aveva un territorio, minuscolo ma suo, uno spazio d’intimità, la figlia del contadino da dondolare. Aveva addirittura frequentato un’anziana maestra, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere; un po’, solo un po’, ma quel tanto che gli aveva procurato sicurezza, capacità di affrontare le situazioni… come quando ottenne giustizia da un poliziotto… come quando rapinò il pane alla donna per pagare il naufragio… e approdare a quei caseggiati.
Ma era nato buono, era diventato… cattivo!

Lì aveva conosciuto Dumitru, il tribuno degli immigrati, che aveva conservato l’indole violenta; solo che ora la scagliava contro i negrieri milanesi, dediti al traffico di clandestini e al loro sfruttamento.

Karim era il braccio destro di Dumitru, con il padre in tasca e il fratellino di otto anni in Tunisia: Tarek era bravo a scuola: studiava con i soldi spediti da Karim e mangiava a casa della mamma di sua mamma, che evitava da anni perché dilaniata dai monili che i predoni le donavano in cambio. Soffriva ancora la morte del papà, caduto da un tetto mentre lavorava.
Karim era rimasto buono!
La sua allegria colmava piatti di carta vuoti e inteneriva materassi di cemento. Tarek era la sua tenerezza, la sua stella cometa, guidava i suoi affanni verso il verde delle oasi: guardare la sua foto sorridente lo rendeva più felice di quando era felice: con quei denti grossi che significavano forza e quegli occhi enormi che promettevano generosità.

Il tunisino la mattina vendeva cianfrusaglie al centro e il pomeriggio scaricava container in periferia. Erano le 11.00 esatte quando riconobbe Bogdan dall’altra parte della strada. Stava per chiamarlo, ma con lui c’era uno dei loro schiavisti, che inspiegabilmente mollò venti euro al serbo.
La sera Karim pedinò Bogdan e lo vide pestare un croato, che subito dopo scappò con moglie e figlioletti dalla stanza. Dopo mezzora se ne impossessò una cicciona con due figlie adolescenti, smilze e carine, e… e dopo un’altra mezzora c’era una fila di muscoli alla porta e pianti all’interno.
Informò subito Dumitru, che una notte senza stelle ebbe la prova definitiva che Bogdan era complice del loro padrone. In un baleno eterno scippò il corpo al serbo, che non si difese, accettò i colpi come una benedizione sconsacrata, cercando sua madre che lo tratteneva mentre suo padre lo cacciava. Anche il rumeno ebbe le sue visioni, mentre gli distruggeva a randellate lo scheletro: fu assalito dall’anima di Anna, rubata per strada tempo prima, e dal viso serafico di Alexandra che, al di là delle Alpi, ancora aspettava un uomo onesto… Se le strinse entrambe nelle mani cieche, mentre fuggiva verso il carcere.

… vennero imposti loro… lavori forzati per opprimerli … gli Egiziani… Resero loro amara la vita… (Esodo, 1:11 e 13-14).
… al tempo della deportazione in Babilonia (Matteo, 1:11).



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